I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 9 febbraio 2024.
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PAPA FRANCESCO
È arrivato dall’altra parte del mondo. Ed una volta a Roma ha detto al cuore della chiesa che è malato. Cosa che prima di lui avevano fatto soltanto i santi… ed i pontefici destinati a diventare Santi. Ma Papa Francesco non ha la mitezza solo apparentemente remissiva di un papa Roncalli: non può averla perché è di formazione un gesuita. Cioè la milizia di Cristo contro l’orda del demonio, preghiera ed azione militarmente organizzate. Senza attrazione per le apparenze che, anzi, vede con sospetto.
Nelle ore scorse ha pronunciato uno dei suoi interventi più dirompenti. Passato quasi sotto silenzio sulla stampa vaticana: un po’ come accadde per l’annuncio del Concilio fato da Giovanni XXIII.
Jorge Mario Bergoglio ha ribadito che la Chiesa è malata. E che la sua malattia sono gli opposti estremismi. Da un lato il modernismo esasperato che ha portato più di uno a celebrare i riti in maniera quantomeno bizzarra, al punto da invalidare i sacramenti. Dall’altro lato un’ortodossia farisea arroccata sul formalismo, l’estetismo della liturgia che si compiace principalmente della forma e non pensa alla sostanza. È stato dirompente nel momento in cui ha smascherato l’ipocrisia di chi storce il naso di fronte alla possibilità di benedire l’amore tra coppie gay ma non si fa problemi nel benedire gente che si è arricchita sfruttando il lavoro degli altri.
Durante la plenaria del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha annunciato che è arrivato il momento di rivedere la liturgia. Perché «Una Chiesa che non cerca di parlare in modo comprensibile agli uomini e alle donne del suo tempo, che non prova dolore per la divisione tra i cristiani, che non freme per l’ansia di annunciare Cristo alle genti, è una Chiesa malata».
Basta con i sepolcri imbiancati.
PAOLO ROMANO
Ha colto al volo quella che oggi è forse l’usta più importante per andare bene a meta alle Europee di giungo, ed ha bruciato perfino Azione, che sul tema ha il veleno attivo di chi deve fare più massa possibile di voto. Si tratta della questione irrisolta degli elettori fuori sede o addirittura residenti all’estero e/o fuori Ue.
Paolo Romano è riuscito a mettere d’accordo tutto l’arco di governo secondo della Regione Lombardia. Ed è stato proprio il Pirellone a chiedere al governo di impegnarsi per rendere possibile il voto ai fuori sede il più presto possibile. Addirittura si punta a rivoluzionare in senso migliorativo il meccanismo già per le imminenti elezioni amministrative della primavera del 2024.
A presentare la mozione lui, Paolo Romano del Pd, e tutti hanno votato sì con lui, tutti. Ha commentato il dem con parole riportate da AdnKronos: “Un voto storico che lancia un segnale forte al governo. Sono mesi che la legge deve essere discussa“. I dati d’altronde sono di quelli che fanno usta etica e gola elettorale fortissima.
Parliamo di circa 4 milioni e 900mila tra studenti e lavoratori fuori sede in Italia. Loro il diritto a votare ce l’hanno e come, ovviamente, ma solo in mezza teoria. La regola dice che deve votare nel proprio collegio. Ma pesano le distanze a volte immense, i trasporti problematici (per il nostro Paese) ed rimborsi decisamente bassi.
Solo Malta e Cipro come noi
Romano ha sottolineato che “in tutta Europa, soltanto Italia, Malta e Cipro non si sono dotati di un sistema per consentire ai fuori sede di esercitare il diritto di voto”. Con una differenza: attraversare Malta da nord a Sud equivale più o meno a fare una buona maratona o una pedalata impegnativa con bracchetto felice al seguito. Muoversi in Italia, che è un filino più grossa, è più difficile.
Quindi se a Cipro il diritto di voto è tecnicamente garantito ed agevole per tutti, magari con uno studente che sta a Milano e che deve votare ad Enna la cosa non è il top. Poi lo studente decide di non votare, qualcuno si lamenta dell’astensione, qualcuno ci marcia e si va avanti così.
A piangere per dolori di cui in parte siamo responsabili noi, almeno come sistema decisorio di vertice. E che Paolo Romano abbia sollevato la questione smuovendo un’Assise Regionale è stato saggio.
Perché quella del voto fuori sede e quella più generalmente del voto è faccenda che interessa tutti.
Il vuoto sul voto.
FLOP
SANREMO E POLEMICHE
Bisogna essere proprio assai sprovveduti per non aver capito che l’andazzo “prog” e disallineato del Festival di Sanremo è stato volutamente esacerbato. Come è noto a tutti, questa edizione in corso si è caratterizzata con un certo “claim”. Quello con cui alcuni dei protagonisti hanno voluto ribadire cose sacrosante ma magari, per alcuni, fori squadra.
La querelle è sempre quella: Sanremo propone canzoni belle/brutte ed annessi a margine o annessi sornioni per fare share e canzoni a margine? Da Amadeus e Marco Mengoni che stroficchiano “Bella Ciao” in conferenza e si proclamano (cosa buonissima ma ovvia) antifascisti a Dargen D’Amico che fa il sermone (giustissimo) sui bambini di guerra. Fino a Ghali che “non sta zitto” (legittimamente) su Gaza ed agli agricoltori (per carità li capiamo) in protesta.
Ecco, senza proseguire nell’elenco, stavolta non si è andati solo dritti a creare i soliti casi gossippanti o socio-riflettenti che sfrattano/puntellano le canzoni. Stavolta si è operato, quasi scientemente, per lanciare una polpetta avvelenata a chi sta in sit in davanti alla Rai. Per cosa? Per protestare esattamente contro quello… di cui adesso ci sarebbero le “prove” che era “falso”. Ed avere quindi materiale sufficientemente marcato ideologicamente per sconfessare la tesi dell’opposizione a sinistra su Telemeloni.
Come ti servo la smentita
Un “noi colonizzatori maddeché?” val bene un mood più marcatamente prog, guarda caso fomentato dalla domanda di un uomo Mediaset, sia pur un Iena con nomea di dissacrante autonomia. Insomma, da adesso chiunque urlasse che la Rai è imbrigliata ed in endorsement con le posizioni di Palazzo Chigi rischia una scoppola o quanto meno una controprova con smentita “indinniata”. Che non mancherà in questi giorni.
Anche il teatrino a destra di queste ore sul “Festival politicizzato” è un’altra sceneggiata-figlia per irrobustire la sceneggiatura-madre. L’importante è averlo capito: capito che noi per loro, per tutti, siamo solo allocchi da mettere in gabbia.
A volte ma non sempre, se solo riflettessimo.
Papaveri e papere.
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