I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di sabato 3 febbraio 2024.
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BENEDETTO VIGNA
Negli ambienti para-economici dell’Italia mainstream da sempre circola una burletta scema. Una lettura da studiati al brodino per cui se sei alla guida di un brand di successo poi il successo ulteriore ti arriva e basta. E ti arriva a prescindere perché il carisma di quel brand si tramuta in soldoni, picchi e cotillon per teoria dei vasi comunicanti.
Messa meglio: secondo un buon numero di economisti di balera se parliamo di Ferrari parliamo di una cosa che fa “colare” gloria senza che ci siano meriti oggettivi per averla vieppiù incrementata. Ovviamente è una panzana colossale, astrale quasi, e soprattutto è una lettura che non mette in evidenza quando conti il board di vertice di certi marchi.
Le “Race” scattano in avanti
Prendiamo Benedetto Vigna, ad esempio. Quello che l’Ad di Ferrari ha messo in cantiere negli ultimi tempi è stato un piccolo capolavoro che ieri si è sostanziato in un balzo in Borsa delle azioni Race (Ferrari). Come è successo? Per fisiologia per cui dovunque campeggi il cavallino rampante di Maranello si materializza il poltergeist di Mida?
No. Nelle ultime ore vigna ha presentato un bilancio 2023 delle meraviglie. Poi ha dato menzione del “maxi-premio per i dipendenti in Italia”. E poi, scusate se è poco, ha messo il suo zampino nell’operazione monstre per portare Lewis Hamilton alla guida di una rossa l’anno prossimo. Il titolo è così volato a 353,50 euro segnando +9,2%.
Il Giornale spiega che “i lavoratori riceveranno un premio fino a 13.500 euro, quota massima per i 5mila che non hanno mai registrato assenze. E già ora l’azienda ha fatto sapere che il bonus annuale di competitività salirà fino a 17mila euro nel 2024. Da segnalare anche le 250 nuove assunzioni”.
Da dove arriva la magia? Più consegne, stima 2024 pienamente promosse dal mercato, raddoppio sul settore ibrido ed exploit assoluto della Purosangue. Quella che Vigna aveva definito sarcastico “la Ferrari che non c’era”. E meno male che non c’era.
L’Ad che c’è e come.
ROBERTO COCOZZA
Se sia più abilità o fortuna sarà solo il tempo a dirlo. Ma da quando l’ingegnere Roberto Cocozza è al timone di Acea Ato5 la conflittualità con i Comuni si è ridotta ai minimi termini.
La componente ‘fortuna‘ non è secondaria. L’attuale presidente ed amministratore delegato è arrivato al timone della società che gestisce l’acqua e la depurazione in provincia di Frosinone quando i sindaci erano arrivati ad un passo dallo sciogliere il contratto che li legava con Acea. Al di là delle diverse suggestioni: non andarono avanti perché fu chiaro che a nessuno conveniva farlo. Perché ad Acea Ato5 si sarebbe sostituita un’altra società e allora tanto valeva mettersi ad un tavolo e pretendere un approccio diverso da quello del passato.
La componente abilità sta nell’avere compreso il momento ed organizzato un servizio che da un lato guardava ai conti ma finalmente guardava ad un concetto fino a quel momento rimasto sullo sfondo. E cioè l’efficienza. All’utente interessa prima di tutto il servizio e poi il resto: il paradosso del passato era che il servizio non c’era e le bollette erano salate, pagare per non avere è una beffa.
Ora che le code agli sportelli sono state azzerate, che i problemi vengono risolti addirittura con una videochiamata senza far spostare da casa il cliente, ora che le soluzioni vengono cercate da entrambe le parti, le reti sono state rimodernate, il terreno è del tutto diverso. Adesso c’è una consulta, alla quale partecipano le associazioni dei consumatori ed Acea ed a quel tavolo si cercano le soluzioni ai casi più controversi.
Campati in aria
Ad esasperare il clima poi erano tante realtà che partivano dai presupposti più assurdi. Come ha stabilito nelle ore scorse la 2^ Sezione Civile del tribunale di Roma. Ha esaminato la Class action avviata dal Comitato di volontariato No-Acea. L’ha respinta e condannato i cittadini a pagare quasi 50mila euro per una causa senza capo né coda.
Sostenevano che Acea agiva “in carenza di potere e senza alcun titolo, per l’inesistenza di un valido contratto scritto stipulato tra singoli utenti e la società“. Ritenevano che le bollette fossero illegittime per “invalida per l’illegittima del’applicazione del metodo tariffario“. Il tribunale ha stabilito che le “domande proposte non sono fondate e devono esser rigettate“. E fin qui ci può stare. Poi ha dovuto ricordare che “non si paga l’acqua: è il servizio idrico a non esser gratuito, per espressa previsione ordinamentale e normativa”.
C’è chi è ancora convinto che con la bolletta paghiamo l’acqua. L’acqua è di tutti: paghiamo per farcela portare fino al rubinetto di casa, limpida e potabile. Per questo ha condannato i cittadini a pagare per un ricorso che non aveva alcuna base. Anzi, a fare acqua era proprio lui.
Ora è un’altra acqua.
FLOP
VITTORIO SGARBI
La cronaca è nota: Vittorio Sgarbi ha annunciato le sue dimissioni da sottosegretario alla Cultura. E lo fa sotto il peso mediatico di due casi che stavano creando sempre più imbarazzo: l’inchiesta per il quadro rubato, la sua attività di esperto invitato in mostre e convegni culturali (a pagamento ma il ruolo di sottosegretario impone di non avere altri guadagni).
Giorgia Meloni aveva preso tempo, scegliendo di “valutare nel merito” le indicazioni dell’Antitrust che ha fissato al 15 febbraio la scadenza per pronunciarsi sull’incompatibilità tra le attività extra governo di Sgarbi e il ruolo che ha ricoperto fino alle ore scorse nel Ministero.
Non aiuta l’indole dell’uomo: incline all’inutile ricorso ad un linguaggio becero e triviale, accompagnato da gesti e mimica da protervo. Ancora più fastidioso perché li utilizza un uomo dalla cultura vasta ed approfondita, capace di farne un elegante impiego trascinando nella passione del suo racconto. Ma Sgarbi è diventato Sgarbi proprio per questo: prendere o lasciare. Ed il suo augurio di morte al giornalista che l’altro giorno gli chiedeva conto delle parcelle va inserito qui.
Le dimissioni sono giuste non per il quadro e non per le parcelle. Ma perché il Governo è (dovrebbe essere) il massimo del meglio che un Paese riesce ad esprimere. E l’Italia non è un critico d’arte che imita se stesso spargendo parole solo per suscitare disagio nelle signore e colpire la loro attenzione.
C’è un’aggiunta. Se Vittorio Sgarbi non è degno di fare il Sottosegretario allora non lo è nemmeno per fare il sindaco di Arpino. Per le stesse ragioni di cui sopra. Il ruolo pubblico è sempre ruolo pubblico: tanto al Governo del Paese e tanto al governo di un paese.
Dimissioni a metà.
MATTEO RENZI
Una cosa che di Matteo Renzi dovrebbe piacere a chiunque, anche a chi ne fa strame per legittimi motivi ideologici, è la sua capacità argomentativa. Mettiamola meglio: il leader di Italia Viva nonché ex presidente del Consiglio è uno che si gioca sempre al top le sue uscite. E lo fa con momenti protocollari, quasi canonici. Innanzitutto precisa ogni volta che il suo è un esercizio di critica politico e basta.
Poi affonda la lama nel merito largo della vicenda che intende evidenziare e infine trae conclusioni. Conclusioni, quelle di Renzi, che sono per lo più improntate ad una visione ampia e di contesto. Cioè, anche quando Renzi “cazzia” qualcuno lo con la visione aquilina di chi ha guardato tutto il campo d’azione.
Cioè senza mai concentrarsi sula sola fetta di responsabilità del suo obiettivo, ma mettendo in scenario tutta la torta. Anche a costo di diminuire lo shining delle sue ragioni.
Con la protesta degli agricoltori non è andata così e il tweet di Renzi di ieri ha risentito del clima pre-elettorale. “Gli agricoltori europei contestano Bruxelles. E allora il governo italiano prova a cavalcare questa protesta. Poi qualcuno all’improvviso fa notare che nel 2024 la Meloni e Lollobrigida hanno aumentato le tasse agli agricoltori: 248 milioni solo per l’Irpef. È la LolloTax”.
E’ tutto vero ma al contempo non è tutto così. Ecco, a Renzi si contesta di aver passato l’evidenziatore solo sulla parte empirica che gli interessava, quella che – indubbiamente – mette FdI in arcione “abusivo” a faccende su cui ha responsabilità. “Dunque crollano le bugie, perché il problema non sono solo le norme europee: il problema è Fratelli d’Italia. Anzi. Il problema sono i Cognati d’Italia”.
Dito contro la “Lollotax”
Sì e no, perché di certo Lollobrigida è un problema e certissimamente i temi dell’agricoltura non vedono il suo partito fuori dal cartoncino di target delle recriminazioni. “Quando stanno sui social difendono gli agricoltori, quando entrano in ufficio aumentano le tasse agli agricoltori”. E’ così ma non è proprio così al millimetro.
Le proteste degli agricoltori sono sì, settate su temi di ampio spettro e diversificate a seconda de paesi ove avvengono, ma molti di quelli italiani ce l’hanno proprio con Bruxelles, magari con trattori semi nuovi comprati grazie al Fondo Europeo. La vicenda insomma è complessa a sfumata, anche a contare le ragioni sacrosante della categoria e le responsabilità bifide, anzi, trifide.
L’auto spot finale è neutro, perfino legittimo: “Io e Maurizio Martina abbiamo tagliato l’Irpef agli agricoltori nel 2016, Meloni e Lollobrigida l’hanno rimessa nel 2024. Noi siamo politici, loro sono influencer. Qualcuno può smentirmi?”.
Nessuno sul merito, senatore, qualcuno sull’utilizzo che del merito ha fatto. Perché noi eravamo abituati ad un Renzi più completo ed elegante. E che proprio per questo poi risultava più convincente.
Sindrome da urna.
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