La malattia di Alzheimer potrebbe passare da una persona all’altra attraverso tessuti cerebrali “contaminati” con la proteina beta amiloide: è un’ipotesi audace e controversa di cui si era già detto in passato, ma della quale si torna ora a parlare dopo la pubblicazione, su Nature Medicine, di un terzo esperimento che sembra darle peso.
La presunta trasmissione della malattia – sempre che ci sia realmente stata, dato il ristretto numero di soggetti su cui si basa lo studio – sarebbe comunque avvenuta all’interno di procedure chirurgiche oggi non più consentite. Dunque, no, a dispetto di quello che potreste aver letto o sentito altrove, la notizia che stiamo per raccontare non è che l’Alzheimer “è contagioso”.. Una tecnica rischiosa e non più in uso. La nuova ricerca, così come le due precedenti, di cui avevamo dato conto qui e qui, è stata coordinata da John Collinge, neurologo dell’University College London che nell’ultimo decennio ha seguito alcuni dei circa 1800 pazienti che nel Regno Unito avevano ricevuto, durante l’infanzia, iniezioni di ormoni della crescita per trattare alcune condizioni mediche. Un tempo gli ormoni necessari per queste cure venivano estratti dai cadaveri, in particolare dalla loro ipofisi o ghiandola pituitaria, una ghiandola grande come un pisello posta alla base del cervello che produce e rilascia questo tipo di ormoni.
La procedura fu poi abbandonata a metà dagli anni ’80, quando si capì che alcuni riceventi avevano sviluppato, dopo i decenni necessari all’incubazione della malattia, il morbo di Creutzfeldt-Jakob, una malattia da prioni, neurodegenerativa e letale, che si sviluppa per il malripiegamento di una normale proteina e che può essere acquisita durante interventi chirurgici con materiale contaminato. Una variante di questa patologia è il “morbo della mucca pazza”.. Trasferimento involontario. Come spiegato su Nature, l’ultimo studio sostiene che, decenni dopo le iniezioni, alcuni di questi pazienti abbiano sviluppato una demenza precoce di tipo Alzheimer. I sintomi (come perdite di memoria e problemi nel linguaggio) che sono stati diagnosticati clinicamente, oltre all’accumulo in diversi pazienti di placche di proteina beta-amiloide nel cervello, farebbero pensare che l’Alzheimer sia “migrato” nei riceventi attraverso campioni contaminati di ormoni estratti dai cadaveri. I due precedenti studi dello stesso team, infatti, avevano dimostrato che nei tessuti cerebrali ricavati dalle ipofisi dei donatori era presente la beta-amiloide.. Amiloide nel sangue. Nel 2015, Collinge e colleghi avevano riscontrato la presenza di placche amiloidi nei vasi sanguigni cerebrali di quattro pazienti trattati con l’ormone da piccoli e morti, a mezza età, per il morbo di Creutzfeldt-Jakob: i prioni che causano la malattia erano infatti presenti nei campioni di ormoni usati nelle iniezioni. I quattro erano deceduti prima di poter mostrare i sintomi dell’accumulo di amiloide, ma la presenza di placche nella circolazione cerebrale fa pensare che avrebbero evoluto, se solo ne avessero avuto il tempo, una condizione chiamata angiopatia amiloide cerebrale, che causa emorragie nel cervello e spesso anticipa l’Alzheimer.. Trasmesso ai topi. Nel 2018, dopo aver rintracciato e analizzato i campioni usati per raccogliere l’ormone della crescita, lo stesso team aveva scoperto che le preparazioni contenevano proteina beta-amiloide. Iniettate nei topi, avevano causato l’accumulo di placche amiloidi caratteristico dell’Alzheimer.. Qualcosa in comune. Nel nuovo lavoro, i ricercatori hanno seguito otto pazienti che si erano sottoposti al trattamento da bambini, ma che non si erano ammalati del morbo di Creutzfeldt-Jakob. Cinque di essi hanno sviluppato i sintomi di una demenza precoce, con esordio dai 38 ai 55 anni di età.
Per Collinge e colleghi, i test clinici e le scansioni cerebrali di queste persone incontravano tutti i criteri necessari a una diagnosi di Alzheimer. L’Alzheimer precoce è di norma legato a fattori genetici, tuttavia assenti in questi cinque pazienti. Una sesta persona dimostrava un lieve deterioramento cognitivo, e una settima mostrava accumuli di beta-amiloide nel fluido cerebrospinale. La maggior parte di questi pazienti aveva comunque altre serie condizioni di salute pregresse.. Indizi incalzanti. Per gli autori dello studio è difficile che i casi riportati siano frutto di una coincidenza. I risultati, insieme a quelli dei due studi precedenti, «sono compatibili con il fatto che questi pazienti abbiano sviluppato una forma di Alzheimer risultante dal trattamento ricevuto in infanzia con ormoni ipofisari contaminati» ha detto Collinge.. Interpretare con cautela. La scoperta si basa su un campione di pazienti molto piccolo ed è difficile da confermare – a causa della storia medica dei partecipanti, della difficoltà nel fare diagnosi di Alzheimer, e del fatto che la beta-amiloide abbia sì un ruolo, ma non sia probabilmente la sola responsabile di questa forma di demenza. Anche se fosse confermata, l’ipotesi di Collinge spiegherebbe solo un ristretto numero di casi di Alzheimer: le pratiche mediche descritte non sono infatti più consentite.. Informazioni in più. Nella vita reale non esiste perciò nessun rischio di “contrarre” l’Alzheimer come si fa come un’infezione. Ma lo studio rimane affascinante perché fa luce sulla natura della proteina beta-amiloide, che potrebbe comportarsi come un “prione” (un agente patogeno di natura proteica e con elevata capacità moltiplicativa) e seminare l’Alzheimer in rarissime situazioni una volta introdotta nel cervello. Studi come questo potrebbero aiutare a scoprire qualcosa di più sull’origine della più diffusa forma di demenza..
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